Da qualche giorno a scuola hanno esposto un pannello con i disegni dei bimbi: hanno immortalato la scena che associano, nelle loro piccole menti infantili, ai nonni. Qualcuno ne aveva disegnati tre, qualcuno due e qualcun altro uno. Naturalmente non credo fossero tutti. Senz’altro ci sono bimbi che i nonni non li hanno perché in classe sono molti, mentre il pannello era tutt’altro che pieno. Mi è venuta, istintiva, una stretta al cuore al pensiero di una simile mancanza, pensando ai miei nonni e a quanto siano stati importanti per me. I nonni materni, almeno, dato che quelli paterni li ricordo solo nei primissimi anni d’infanzia, quando tutto si fa un poco nebuloso.
Io vengo da una famiglia tutt’altro che Mulino bianco: i miei genitori si sono separati che io avevo cinque anni e mia sorella era appena nata. Sono tornata di corsa in Italia, passando dalla notte al giorno di due realtà agli opposti come Canada e Italia. Nonostante il nebuloso di cui sopra, ricordo di aver lasciato la casetta delle bambole gigante alla vicina di casa (come vi avevo accennato qui, uno di quegli eventi melodrammatici, degni di una puntata di Remì o Candy Candy -.-”) e i preparativi che, non so se davvero o solo per me, avevano un trambusto quasi da fuga. Ricordo poi, l’istintiva antipatia per una casa di città, arrampicata in un palazzo anziché distesa su un prato. Tutto questo, sommato all’arrivo della sorellina e alla sparizione del papà. Mettetevi per un attimo nella mini me. Ecco. Se non sono diventata una serial killer ma una blogger (peggio per voi), forse il merito è anche dei miei nonni. Loro sono stati, in tanti frangenti difficili, il sapore di “casa”, di un tempo tranquillo e senza scossoni. Di una generazione senza particolari paturnie o grilli. Che andava in villeggiatura e non in vacanza (l’esplorazione di posti esotici credo risalga al boom delle compagnie low cost di massimo 1-2 decenni fa), coprendo i mobili di casa con grandi teli bianchi perché sarebbe rimasta vuota a impolverare per mesi. Di quell’accoglienza sempre pronta: con il mobiletto dei liquori e i letti mai disfatti. Delle pareti piene di quadri e le credenze di statuine di porcellana. Del senso del dovere come una seconda pelle, non avvertita come un peso ma come un vestito che abbellisce la vita. E delle filastrocche. Quante canzoni e filastrocche ho sentito da mia nonna, del “tempo del collegio”, incomprensibili e misteriose ma che mi hanno insegnato come, non sempre, quello che non si “capisce” debba turbare, ma semplicemente affascinare e godere senza farsi troppe domande filosofiche. Quante fiabe di principesse e “lanzichenecchi” sul lettone per addormentare me e mia sorella, ha tirato fuori dal cilindro mio nonno: un uomo della contabilità, amministratore di condominio, eppure con una vena letteraria inaspettata, capace di vincere, con un tema, in premio come migliore di Roma. E quante volte abbiamo giocato a calciare il pallone nel vaso della terrazza grande, da cui si scorgeva in lontananza il “cupolone”.
Da più grandicella, ho raccolto tante confidenze di mia nonna, delle sue spalle larghe e il suo cuore grande, sulle difficoltà che ha passato: la guerra, la mancanza del papà proprio come me, di come abbia perduto la prima gravidanza e il suo unico maschietto, pochissimo dopo la nascita. Dolori che spezzerebbero tempre robuste, ma che l’hanno resa una donna forte e delicata allo stesso tempo, e capace di condividere con slancio sincero le pene altrui. Il mio modello nell’accogliere le difficoltà come un’opportunità per crescere anziché lasciarsene vincere. Sono ben lontana dai suoi risultati, ma quanto ha significato il suo esempio vissuto sulla pelle, più che tante vuote chiacchiere. E credete a me, sono queste le cose che si incidono indelebili, nel cuore dei bambini. Ogni volta che raccolgo lo sfogo di chi ha passato queste piccole ma immense tragedie personali o anche solo ne sento parlare, il cuore si sussulta, per quell’attimo, e penso a lei. Sarà che siamo nate esattamente a mezzo secolo di distanza, persino in giorni molto vicini, ma la sua figura, specie in certi frangenti, mi accompagna come un vero, silenzioso angelo custode di cui si avverte la presenza anche se non si vede.
La mia infanzia ha attraversato molte burrasche, eppure la ricordo, nonostante tutto, serena. Grazie nonni, siete le mie rocce.
Per questo, tornando al nostro pannello, credo non sia giusto voler cancellare i “lavoretti” dedicati alle figure familiari. Credo che ci voglia una sensibilità straordinaria però, da parte delle maestre: magari separare in due gruppi e fare due attività diverse o evitare di esporli, non so, sono solo idee: andrebbe studiata una formula che valorizzi certi doni senza gravare su chi è senza. Queste sono per me, in effetti, le vere ricchezze e povertà di un bambino, ben peggiori della mancanza di un paio di scarpe del cartone preferito o di pile di giochi che stancano dopo due giorni.
Anzi, se penso a questo discorso, mi si apre una finestrella su uno stralcio della mia amata Bianca Pitzorno in “Ascolta il mio cuore”: l’episodio del tema sul papà di Elisa, la migliore amica di Prisca che aveva perso i genitori in guerra e viveva in casa dei fantastici zii. Per chi non lo conoscesse (GRAVE, molto GRAVE), lo descrivo velocemente.
La maestra “buona” evitava il consueto tema “genitori” in classe proprio per non urtare la sensibilità della piccola, mentre la “cattiva” (e che cattiva!) il primo che assegna quale potrà mai essere? Esatto! “Che mestiere fa il tuo papà?” (naturalmente in ottica “classista”, tematica che andava forte all’epoca. Si era a “fascisti contro comunisti”, anzi in Sardegna a monarchia contro repubblica). La piccola, ricacciando i lacrimoni, si ingegna in un mirabolante elaborato di fantasia, degno dei migliori giallisti. Naturalmente l’ottusa maestra la rimprovera. Ecco, io sono di questo parere: sbagliano entrambe le maestre. La prima, per non ferirne una, priva le altre di qualcosa di naturale e bello come l’istinto di imitazione e di orgoglio dei propri genitori. La seconda sbaglia (e ben più gravemente) nel rimproverare il risultato di fantasia. La giusta misura e la soluzione, come spesso accade, la trova proprio la bimba, con la sua magnifica reazione, propria degli spiriti fanciulleschi: il gioco, l’immaginazione, la creatività, come antidoto a ciò che ci spaventa o rattrista. Una vena meravigliosa: nella storia viene tristemente soffocata, ma che invece,, valorizzata, credo sia la lezione che ci danno quotidianamente i bambini. Solo chi guarda il mondo coi loro occhi, attraverso un tema o un disegno, trova la chiave migliore per interpretare la realtà, anche la più brutta.
2 Comments
I miei nonni non sono stati così presenti. Forse anche perché mia madre è casalinga. Oggi giorno però, i nonni – soprattutto in Italia – hanno un ruolo pazzesco e insostituibile o quasi, vanno a coprire anche le falle del sistema, per così dire (pensiamo agli orari di scuole e nidi dove il lavoro dei genitori non combacia). E la mentalità è cambiata. I lavoretti? Sempre e comunque. Magari suggerendo un tema allargato, tipo: “Un grande che per me è importante oltre a mamma e papà.” Chi non ha un nonno può avere uno zio, un vicino, una baby sitter.
infatti, ci sono tante soluzioni…non trovo giusto “eliminare” qualcosa di positivo, non è meglio trovare un’alternativa? Io non avevo il papà, in una scuola di 35 alunni dalle suore (dove, e parliamo di solo 20-25 anni fa, non dell’ottocento, erano quasi tutte famiglie almeno come struttura “del mulino bianco”) e tutti questi traumi non è che li abbia riportati. A volte siamo noi adulti ad ingigantire le cose, forse anche per via dei nostri perenni sensi di colpa.