Già, quando.
La “mia” ostetrica diceva che si diventa mamma non al parto ma pian piano, ogni volta che togliamo un pezzetto di noi per fare spazio a quegli esserini minuscoli e tirannici che reclamano un po’ della nostra vita.
Se però ascolti tante mamme “del cuore” che hanno perso una vita mai sbocciata, non puoi non pensare che siano balle colossali.
Il tempo su di me ha un fascino irresistibile: mi mette di fronte all’essenza e allo scorrere della vita e ogni tanto mi soffermo incantata ad osservarlo, come si scrutano, affascinati, le rotelle e gli ingranaggi perfetti degli orologi che lo misurano.
Interrogo la mia anima, ripercorrendo a ritroso ogni primo passo, ogni smorfia involontaria e ogni scarabocchio, ogni pomeriggio al parco e ogni cucchiaiata di passato di verdure.
E no, non la trovo la risposta a questa domanda:
[Tweet “”quando è successo, che sono diventata mamma?””]
Io non lo so più dire dov’è il capo di quel filo invisibile e inesorabile.
Forse perché “dopo”, il tempo scorre diversamente, dilatato. Forse perché sono veri inizi tutti e due: sei madre da prima del tempo e non lo sei mai, se non lo senti sotto la pelle, scorrere nelle viscere.
Forse è questa legge misteriosa e beffarda che fa madri donne che non partoriscono e spazza via ogni traccia di maternità in altre che, pure, hanno generato.
Forse perché non conta più veramente stabilire se si diventa mamma mentre stringi tremante quell’aggeggio con due linee o quando esci di casa col cuore stretto dal loro pianto perché sentono che la mamma non è un tutt’uno con loro e non sarà mai più così, che lo vogliamo o no.
Che loro vengono da noi, si portano dietro prepotentemente un pezzo della persona che eravamo, ma ce ne infondono uno nuovo e straordinario. E, come due calamite, ci cerchiamo anche quando siamo divise da mondi interi.
No, non conta più l’inizio: a noi basta la certezza di una fine che non esiste.
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