Diamogli il nostro tempo felice con loro
Le ragazze si annoiano: spesso non sanno cosa farne di quel tempo che hanno a profusione: un tempo morto, che si riempie di tutto il “loro” mondo: che siano i compiti di scuola, le risate con gli amici, le passioni oppure le insoddisfazioni e il lato oscuro che genera mostri.
A volte i genitori, preoccupati di questo tempo, come se fosse un buco da riempire a tutti i costi di “altro”, si prodigano nel trovare millemila attività alle figlie: il corso di danza, il corso di coding, poco importa, purché si “impieghi” in qualche modo, possibilmente costruttivo, lontano dall’ambiente familiare, reo di creare bamboccioni.
Così impariamo che crescere significa non averne, di tempo. Non avere un attimo per fermarsi e stare con noi stesse. Pian piano questi ritmi si consolidano e diventano abitudine, infine essenza stessa del nostro essere.
Quando arriva un figlio, il trauma che molte donne di oggi affrontano è proprio questo: il cambiamento del tempo. Quasi più dei problemi di lavoro, dei nuovi assetti coi propri compagni, del senso di inadeguatezza nel curare un esserino che dipende da te.
Di colpo, quel tempo che credevamo di conoscere a menadito, che scorreva secondo i nostri desideri, la nostra indipendenza, prende un nuovo corso.
Cosa c’è di più destabilizzante di questo flusso incontrollabile? Come avere tra le dita una sabbia finissima e sfuggevole, che più ci sforziamo di trattenere e “gestire”, più fluisce a modo suo, facendosi beffe dei nostri sforzi.
Quel tempo che si ferma stupefatto mentre una mamma allatta, che si impenna quando restringe le tutine e costella le gengive di nuove piccole gemme. Che non puoi frenare o accelerare perché adesso è al di là delle tue capacità. Lo hai consegnato a dei piccoletti che zampettano ancora incerti ma che passeranno questo testimone al futuro, negli anni in cui dovranno procedere ormai spediti da soli.
Eppure, nonostante questo malefico scherzetto, il tempo, dopo i figli, opera un miracolo che spesso passa inosservato. Un miracolo che parla di un tempo condiviso con i figli fin dalle cellule, che si scambia.
I dieci anni di vita persi ogni volta che un figlio si sbuccia le ginocchia, capitombola dal divano, ti scrive sui muri, giace nel letto febbricitante, o torna a casa due ore dopo, senza clamore, torna da noi.
Ci ribadisce che non è più solo nostro, (come se non bastassero le sedute in bagno in compagnia) ma che è una cartella drive a cui accediamo noi e le pesti in simultanea.
Che i nostri figli dimenticheranno, forse. Ma anche se ci prenderanno a parolacce, o sembreranno inconsapevoli del tempo in cui cercavano una conca sotto il nostro mento, per accucciarsi e tormentarci i capelli, quel tempo non si cancellerà mai veramente. Resterà nel fondo dell’anima, come una conchiglia che risuona le onde dell’infanzia. Si nasconderà sotto la sabbia, nelle profondità degli abissi della vita adulta.
Io ci credo, eccome, a quello che ha detto Dostoevskij nella parte finale del suo capolavoro incompiuto, “I fratelli Karamazov”, una perla che custodisco gelosamente:
Sappiate, dunque, che non c’è nulla di più elevato, di più forte, di più sano e di più utile nella vita che un bel ricordo, specialmente se è un ricordo dell’infanzia, della casa paterna… Se un uomo riesce a raccogliere molti di questi ricordi per portarli con sé nella vita, egli è salvo per sempre. E anche se uno solo di questi ricordi rimane con noi, nel nostro cuore, anche quello solo può essere un giorno la nostra salvezza.
Quindi sì: diamogli il nostro tempo felice con loro. Che quel buco non sia solo colmato da competenze o distrazioni che li fanno dimenticare le cose che contano veramente. Privilegio e responsabilità sacri, nel senso stretto, di noi genitori. Diamoglielo quando meno sembra a noi che non capiscano. Quando la razionalità si prende il suo, è già tardi.
Quello stesso tempo felice, cura anche il nostro male di vivere da adulti: quante volte ho visto nonni rifiorire al contatto con i propri nipotini e papà in carriera rallentare per tenere un passo in miniatura.
Vale molto più che pagargli un master prestigioso o un corso di geroglifici egiziani. Che siano due ore o tre anni: i figli respirano, si aprono come corolle al sole, grazie alla nostra felicità che li sveglia al mattino.
E quando infine la giornata si spegne, i mille impegni si zittiscono e la mente vaga liberamente, torna a cullare i sogni, anche delle mamme.
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