In questi giorni si polemizza -tanto per cambiare- su come le mamme blogger sponsorizzerebbero anche la soda caustica per il culetto dei bambini, pur di portare a casa la pagnotta (anzi, l’Happy Meal). Pietra dello scandalo, la campagna di massa Mc Donald’s.
Questo l’articolo incriminato che ha gettato la benzina sul fuoco.
Ora: che ci siano delle ingenuità e delle gestioni di campagne massive discutibili (che già io non amo di base), è evidente, ma è un problema ad un livello superiore se vogliamo (agenzie-brand).
Alcuni clienti sono più delicati di altri e certe leggerezze davvero non è possibile permettersele, Mc Donald’s rientra senz’altro in questa categoria per molti motivi. C’è da dire che sono anche tanti i miti negativi esagerati che lo rendono un vero fenomeno (non posso non ricordare che in Antropologia viene detto proprio “mcdonaldizzazione”).
Che qualche “mela marcia” poi, sponsorizzi la qualunque, non può e non deve diventare il capro espiatorio per il “dagli al blogger”, come vedo fare sempre più spesso (mi riferisco ad esempio ai casi virali della presunta influencer e l’hotel o della instagrammer andata in rovina per fingere una vita di lusso ).
Premessa questa, doverosa, ma a questo punto vorrei anche sottolineare come sempre più spesso il blogger di turno, specie se non proprio Chiara Ferragni come numero di followers, sia trattato letteralmente come “carne da macello”, in prima linea a beccarsi le shitstorm di gente completamente ignara delle dinamiche digitali, in pratica: come quando una cliente se la prende con la commessa se un vestito è tagliato male e la fa sembrare un bombolone anziché la Schiffer.
Il risultato? L’intera categoria -fatta invece anche di tante persone professionali- ne risulta screditata e diventa più difficile fare i distinguo, per cui magari le aziende preferiscono mollare la presa in toto, perché carenti di strumenti o della cultura per fare questa fondamentale operazione di selezione.
Care mamme blogger, diventa cruciale essere sempre più selettive e non contribuire noi stesse ad abbassare il tiro e il livello. Insomma, quantomeno non diamo il coltello in mano ad una certa stampa che ha tutto l’interesse a far fuori la concorrenza digitale, puntando tutto sulla debolezza derivata da un mestiere nuovo con barriere d’ingresso basse.
Ho scritto questo post per le tante blogger che non hanno visibilità sul “backstage”, per sensibilizzarle e informarle, ma anche per magari le piccole aziende o le agenzie per far loro vedere lo stesso lavoro, dal punto di vista di chi ingaggiano. Il mercato digitale è proprio come la legge: non ammette ignoranza.
Ho scritto tempo fa un post-guida per brand e blogger su come gestire un difficile fidanzamento: ecco, qui riassumo alcune tra le più comuni cause di divorzio.
Ma veniamo ai faux pas che agenzie, pr e brand possono fare quando vogliono contattare un blogger e che possono compromettere la campagna e far naufragare il rapporto.
1.Contatto i blogger e gli influencer come “carta della disperazione” e senza un’idea precisa
Questo per me è IL motivo chiave per cui vedo fallire progetti e partnership. Molte aziende (e vi assicuro che poco importa se siano aziende familiari con 3 persone o multinazionali strutturate con reparto marketing e comunicazione) arrivano alla canna del gas e si imbattono nell’ennesimo consulente o magari articoletto su LinkedIn che parla dell’importanza di farsi pubblicità online. Nella testolina dell’imprenditore di turno scatta la lampadina: “ma sì, sguinzaglio la mia segretaria dicendole che regaliamo i nostri fantastici rotoli di carta igienica coi gattini in cambio di un post”. In pratica, uso il solito fucile mezzo rotto e sparo nel mucchio, sperando di fare più risultati della pesca miracolosa. Credo non ci sia bisogno di capire quante siano le chance di far risalire il fatturato così, giusto? Poi però, quelle stesse mine vaganti vanno in giro dicendo che “il web non serve a una mazza”. Ah, bonus negativo ulteriore quando lasciano alla povera blogger di turno anche l’ingrato compito del “fai tu una proposta”, ovviamente sul nulla.
2. La campagna massiva che deve risollevare il sentiment pari a -300% verso il mio brand
Qui siamo di fronte a complesse analisi con tool professionali, ricerche di mercato e benchmarking. Esce fuori che sto benedetto brand piace alla gente quanto un calcio rotante di Chuck Norris. Il reparto digital viene preso d’assalto dall’Amministratore-Gran-Farabutt di turno, sconvolto dalla notizia, che incarica di fare subito qualcosa. In alternativa, tocca ad un’agenzia esterna spalare la mer il lavoro sporco.
Notoriamente entrambe le entità sono subissate di lavoro e poi, specie se l’azienda è grossa e paga bene, il cliente ha sempre ragione. Dunque, vai di mega campagna di massa in cui si affida il compito di sponsorizzare il marchio a dozzine di (a volte sprovvedute ma magari meno costose) blogger.
Molto spesso la blogger di turno non sa assolutamente NULLA di queste dinamiche, il dietro le quinte non viene quasi mai condiviso. Rischi quindi di partire per una guerra del Vietnam, in cui sei preda del popolo del web, scazzato ed esasperato (e diciamolo, pure un po’ rosicone) che, apriti cielo, sei una markettara indegna, e anche se inserisci un hasthtag ADV grande come un uovo di Pasqua, passi per la furbetta di turno agli occhi del grande pubblico.
Questo è uno dei motivi per cui personalmente sto rifiutando il 99% delle campagne di questo tipo. Non sono una che cerca la pubblicità facile attraverso le polemiche (se devo finire sul Rolling Stones, preferirei fosse per motivi più interessanti) e quindi non me ne frega niente di “crescere” a suon di attacchi gratuiti (perché, cari delatori, qualora non lo sapeste, spesso fare pubblicità negativa fa solo aumentare la popolarità di certi profili, in una dinamica perversa stile Signor Distruggere o Miss Pelliccetta).
3. Tu sei l’unica blogger per me
Anche qui, proprio come per gli spasimanti: ti tempestano di email, call e pure sms sotto la doccia mentre canti Alan Sorrenti. Voglio te, proprio te, fortissimamente te, sei l’unica blogger per me. Sei così in linea con la mia mission aziendale (vi giuro che mi sto immaginando la scena di uno con la faccia da pesce lesso mentre porge un solitario alla fidanzata a lume di candela scandendo queste romantiche parole), faremo grandissime cose, ti voglio come brand ambassador finché morte non ci separi.
Tu lusingata e incuriosita da questa corte serrata, inizi a capitolare. Azzardi una vaga risposta interlocutoria. Non l’avessi mai fatto, Alan Sorrenti sparisce. Tu resti col dubbio che la tua email puzzasse o che a lui mancasse qualche rotella. Care followers rosicone che ci invidiate i campioncini di saponette e mascara, pensate a che tormenti dobbiamo subire in cambio.
4. Il “ribasso” o il “rialzo” fittizio
Ne ho già accennato tempo fa quando parlavo delle collaborazioni: spesso si tende a scegliere profili o solo per motivi numerici (che bello, ha un milione di followers! Ma magari sono tutti indonesiani interessati alla pesca subacquea e io sono un brand che vende serramenti per le villette in brianza) oppure al ribasso (scelgo anche una blogger che non c’azzecca niente purché accetti il cambio merce). Insomma, non mi dilungo: gli elementi per selezionare blogger e influencer sono svariati e non così immediati. Per assicurare un ritorno sull’investimento, occorre in primis buonsenso e intelligenza e poi possibilmente uno studio del settore che vada al di là del “ho sfogliato la sua gallery su Instagram”, “il suo cane è un beagle simpaticissimo come il mio”.
5. Errori di strategia sulla gestione della campagna
Avete superato indenni tutto il processo “pre”: siete belli gasati e convinti, ma l’errore è ancora dietro l’angolo. Campagne magari partite bene ma poi traballa un elemento e diventano un tetris: si licenzia la pr di riferimento oppure ci sono intoppi sulla gestione fiscale sulla fatturazione all’estero, le tempistiche diventano improvvisamente più strette del previsto e tocca fare tutto di corsa ecc. Insomma, occorre restare sempre vigili.
6. Il “lei non sa chi sono io” – “ma chi ti credi di essere” digitale
Ebbene sì, capita anche questo: la blogger (saggiamente) fiuta la sòla e si nega. Ecco che parte il “sei un profilo piccolo e ti permetti il lusso di rifiutare il mio fichissimo prodotto? Tu non lavorerai mai più, il mercato non funziona così, tutte le altre lo fanno, ma chi ti credi di essere” e bla bla bla.
Care colleghe appena uscite, lasciateli blaterare come lo fareste se fosse un povero sfigato respinto, è il classico sfogo di chi è piccato perché sotto sotto sa di averci “provato” maldestramente e voi non ci siete state. I rapporti personali e quelli professionali non sono poi così diversi.
7. Infine…mi dispiace per te ma il prodotto/servizio fa schifo
Se è vero che “content is the king”, è sempre vero anche che nemmeno la migliore delle strategie e campagne digitali può salvarti se non hai prima lavorato un minimo anche per migliorare quello che offri. Potrà magari migliorare un filino la situazione, ma…”vatte a magna na cosa”, dammi retta.
La citazione video vintage trash non può mai mancare nelle mie mini guide digital
Ho visto campagne con un bel po’ di errori e gestione così così di prodotti veramente top funzionare comunque, mentre se si parte già di base maluccio, ci vuole un mago per salvarti le chiappe. E i maghi si pagano, altro che campioncini di mascara e saponette.
That’s all folks, anzi mamme blogger degeneri.
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