[Tweet “Il turista attraversa un paesaggio, il viaggiatore lo vive”]
Quando andavo all’Università io, era appena scoppiata la “moda” dell’Erasmus. Alle medie, a scuola, ci proponevano già di trascorrere uno o due mesi in famiglia in UK o Irlanda per imparare l’inglese ma erano ben pochi quelli che si iscrivevano, solitamente di famiglie molto benestanti o particolarmente inclini a questo genere di esperienza.
Io ho iniziato a viaggiare un po’, proprio negli anni dell’università (mia madre è un tipo molto stanziale, forse anche per reazione al fatto che mio padre, da buon anglosassone, è l’opposto): le modalità erano quelle “classiche” del “turista”, quindi decisamente troppo mordi e fuggi per i miei gusti, e spesso partivo con un’idea anche piuttosto limitativa dell’esperienza cui mi accingevo. Infatti, nell’era delle compagnie low cost come Ryanair o Blu express, era diventato di colpo più economico farsi un weekend a Londra, che fare il pendolare Bari-Barletta. Ricordo perfettamente il raccapriccio della “prof” di letteratura inglese allo scoprire che buona parte dei suoi studenti ventenni non era mai stata nella city: “ma che diamine, prendete un aereo, ci vuole meno di un’ora!”, tuonò nel contemplare sconfortata le dozzine di mani alzate in risposta al suo sondaggio.
Come in tutti i processi di “democratizzazione”, specie così veloce, ci sono stati morti e feriti sul campo: se non andavi in giro per mezza Europa (come minimo) eri terribilmente out e magari pure becero. Perché, si sa che viaggiare molto comporta, non di rado, oltre all’indubbia maggior apertura mentale, anche una certa malcelata aria di superiorità verso chi “non ha visto”. E così, le madri, convinte dal complesso verso la vicina che aveva il fiolo in Nuova Zelanda e tornava parlando un british più figo della regGina, la moda ha preso rapidamente piede.
Orde di ragazzetti italiani hanno invaso di botto, indiscriminatamente, le boulevard parigine o le avenue newyorkesi. Nella frenesia del “fare esperienza del diverso”, si fiondavano da Starbucks e Topshop (diverse dalle nostre, ma in realtà “catene” internazionali, appunto), più o meno con la stessa smania e tremore con cui un tempo, i letterati nordeuropei varcavano la soglia del Colosseo o del Partenone.
Che non voglio dire ci sia qualcosa di male, di per sé, nella frequentazione di detti luoghi di svago (a me piacciono!). Ma ho molto da dire sul viaggio millantato come esperienza, considerata pedissequamente “formativa”. Non giungo ad anatemi come si è sentito dopo i recenti casi di cronaca nera come le gite di liceo finite in tragedia, ma mi piacerebbe interrogarmi sulla questione: “quali sono i presupposti per cui un viaggio, per dei ragazzi soprattutto, risulti davvero una tappa positiva, che arricchisca in tutti i sensi?“
Io, lo sapete, su diversi temi sono un tipo “vintage“: trovo molto interessante il confronto con altri sistemi, lontani nel tempo e nello spazio. Non per riproporli tali e quali, ma per uno spunto di riflessione e, perché no, anche per aggiustare il tiro se ci sono problemi o dubbi.
Allora: porto (e ho portato) ad esempio uno dei miei scrittori del cuore: Hans Christian Andersen. Il nostro era un ragazzino poverissimo, eppure girò, due secoli fa, tutto il “girabile” dell’epoca, e lo fece finanziato dall’alto pur essendo un emerito nessuno, figlio di un oscuro e stravagante ciabattino e una lavandaia.
Come? Dimostrando il suo valore sul campo. Fin dalle primissime opere, riesce ad ottenere sussidi reali per i suoi viaggi, il “Grand Tour”, appunto, che documenta con finezza e costanza (“Bazaar di un Poeta” è uno di quei testi che qualunque viaggiatore o aspirante tale dovrebbe leggere).
Noi che ci vantiamo tanto di essere un’epoca “liberale”, possiamo annoverare una simile meritocrazia? Perché se è vero che è bene che le possibilità siano alla portata di tutti, è altrettanto vero che, senza criteri, si rischia un appiattimento dell’esperienza stessa e il viaggio passa dall’essere una trasformazione, una scoperta, ad essere mero consumo sotto forma di biglietto. Di regalare come bagaglio unicamente un proliferare di video haul di acquisti su Youtube, e nient’altro. E i genitori aprono i portafogli, nell’ingenua convinzione di offrire una “marcia in più” ai propri figli.
Adesso lo so, molti partiranno in quarta con le critiche, ma personalmente credo che, [Tweet “prima ancora di viaggiare fisicamente, si debba essere allenati a farlo mentalmente”], ad esempio con l’amore per la lettura. Quella non costa certo quanto un soggiorno studio: basta davvero niente, oggi più che mai. Leggere, leggere: che sia un tascabile da quattro soldi o un grande classico soprattutto, non lascia mai a mani vuote, come si rischia partendo senza la predisposizione adatta: ossia il lasciarsi trasportare, una curiosità profonda di “vivere come se”. Forse per questo ho sempre preferito, all’atto pratico, scegliere un appartamento, quando possibile, anziché un forse più comodo hotel: per l’effimera sensazione di immergermi nella vita del luogo che potevo solo toccare fugacemente, proprio come mi capitava tuffandomi nelle avventure letterarie.
E provavo maggior interesse per aggirarmi senza meta particolare per le viuzze in cerca dell'”anima” del posto, più che infilarmi in musei e negozi tutti uguali. Ma questo rispetto l’ho imparato prima tra le pagine dei mondi altri che sognavo sulla carta stampata, un “lavoro” personale, in nessun modo sostituibile dalle finanze dei genitori.
E, pur partendo da viaggiatrice “immatura”, non ho però mai avuto la tentazione del viaggio come status symbol o come fosse una sorta di sessione di shopping compulsivo. Questo processo di maturazione non è in alcun modo prescindibile e dovrebbe stare al buon senso di chi ha la responsabilità dei ragazzi, in una valutazione serena e il più possibile oggettiva.
Per questo, credo che sarebbe forse più giusto evitare o limitare i viaggi collettivi (anche perché, diciamo la verità: l’atmosfera d “branco” difficilmente permette altro che non le goliardate, più o meno innocenti), e favorire quelli individuali in determinati periodi e previo un colloquio con genitori e ragazzo. Eventualmente anche come premio per dei meriti particolari, proprio come nel caso di Andersen. Non sono una docente e non voglio dare “regole” o direttive, ma solo esporre (e confrontarmi con altri genitori come me) una mia idea, che mi sono fatta come figlia, in primis. Non sono lontani ancora, gli anni della mia giovinezza (ne ho 33, e mi sono sposata a 27), quindi non parlo da vecchia bacucca dimentica della dimensione giovanile. Proprio perché certi soggiorni ora sono alla portata della famiglia media, trovo più giusto lasciarle alla dimensione personale, almeno nelle modalità attuali. Se voglio andare a Londra a fare la turista o la serial shopper, non c’è niente di male, ma non credo spetti alla scuola incentivarlo o tantomeno spacciarlo per educativo. E quando parliamo di Erasmus, penso non occorra solo pensare alle voci “pre-selettive” (come il buon rendimento scolastico) ma prevedere anche una forma di “controllo” ad hoc durante (se le cose sono cambiate negli ultimi anni, fatemi sapere!). Anche perché 12 o 24 mesi all’estero possono facilmente sfuggire di mano. Penso che a volte, questa stessa scuola si faccia un po’ trascinare dai trend, senza considerare le ripercussioni. Che il superfluo venga percepito come indispensabile, senza un reale approfondimento o spirito critico. Guarda caso, le stesse caratteristiche che ci vorrebbero, per affrontare davvero un viaggio.
8 Comments
Io ho una piccola collezione di libri sul grand tour.
Anche io, sia narrativi che d’arte…mi affascina molto come argomento ☺
Interessante, mi puoi/potete dare qualche titolo di questa collezione?
Non so perche non mi posta il link…uno che sfoglio sempre con grande piacere è questo: “Roma com’era nei dipinti degli artisti danesi dell’800” di Olsen Harald p.
A livello narrativo non smetterò mai di consigliare “Bazar di un poeta” in cui Andersen parla del suo Grand tour, è uno spaccato straordinario dell’europa dell’epoca visto dagli occhi di un uomo straordinario!
io sono stata una delle fortunatead andare per due volte a fare esperienze scolastiche in gran bretagna..e in francia…. e devo dire ringrazio i mia madre per avermi datro questa opportunità..ho imparato ‘inglese e il francese ed a cavarmela in giroda sola….ero in un college ..e misono divertita tanto…
però una cosa voglio dirla ….. i libbri mi fanno proprio girare il mondo ….. riesco ora con 5 figli e un marito pantofolaio… a girare ilmoidno grazie alleparole alle foto e a tuttoquello che l’arte mi propone inogni sua forma……
son a favore dei viaggi individuali chefortificano e arricchiscono ….adesso viaggi culturali initaliae poispero chei miei figli possano fare esperienze così coem ho fatto io….
veronica
Ecco, io volevo far passare che con i presupposti giusti è un’esperienza meravigliosa, mentre in generale -non vale solo per i ragazzi- il viaggio stile usa e getta perché altrimenti sei out è qualcosa di tristissimo
Prima trovavo la scusa che ero indietro con gli esami e non volevo peggiorare la situazione… Poi pensavo al peso economico per la famiglia (le borse di studio erano esigue e non coprivano le spese aggiuntive che avrei avuto andando all’estero)… Alla fine ho detto a me stessa che non volevo partire per l’Erasmus per il timore che forse non avrei piu’ voluto tornare indietro… Col senno di poi, sono contenta di non averlo fatto; ho fatto altri viaggi nel periodo immediatamente successivo all’universita’, sicuramente piu’ brevi di un Erasmus, ma vissuti con maggiore consapevolezza e che mi hanno fatto maturare molto. Una volta tanto, sono contenta di non aver fatto qualcosa, forse semplicemente l’Erasmus non era la forma giusta di esperienza all’estero, per me!
Esatto…ci vuole più senso critico e non il fare qualcosa solo perché così fan tutti!!