Nei giorni in cui si doveva festeggiare la Giornata contro la Violenza sulle Donne, torna invece alla ribalta prepotentemente il problema degli stereotipi di genere nei fatti di cronaca. La televisione italiana e tutto il mondo dello spettacolo in generale, relega ancora oggi, anno Domini 2020, la donna a due sole alternative: angelo del focolare oppure oggetto del desiderio. Il tema non è solo un trend o un chiacchiericcio da bar ma merita un approccio più serio e un dibattito che prenda le mosse da basi scientifiche.
Nell’ambito delle serate digitali del progetto WOW – Women of Widiba: la finanza finalmente al femminile, organizzato da Banca Widiba, si è discusso di recente il tema diversity con una chiave davvero molto particolare e soprattutto estremamente concreta nel suo approccio e nel “rimedio” che propone nella lotta agli stereotipi.
Stereotipi che emergono ancora con forza nei discorsi che mi capita di fare tra colleghe che hanno la ventura di lavorare e operare in particolare in settori, come il caso dei servizi finanziari, tradizionalmente territorio maschile.
Qualche numero? Come ci ricorda Graziana Pesce, Head of Communication di Banca Widiba: “Oggi la percentuale di donne tra gli iscritti all’albo come consulenti finanziarie è di circa il 23%”: un dato in crescita ma ancora lontano dalle cifre del sesso opposto.
Il focus è sugli stereotipi -spesso anche involontari- di cui è intriso il nostro linguaggio: da quello quotidiano mentre si chiacchiera con amici e collaboratori, fino a quello più sottile della pubblicità.
Ospite e speaker dell’incontro, Alexa Pantanella, professionista con un background di 15 anni nel settore Marketing e Comunicazione fino a ricoprire il ruolo di Head of Marketing Communications and Media in Luxottica,e oggi creatrice di Diversity and Inclusion Speaking. Un programma, quello di Diversity and Inclusion Speaking, che ha come obiettivo un deliberato lavoro sul linguaggio, appunto, per sradicare stereotipi particolarmente consolidati nel tempo.
La lingua è per sua natura “lenta” nel recepire i cambiamenti sociali: provate a pensare ad espressioni come “maschiaccio” o “femminuccia”, con connotati dispregiativi o che spesso neppure percepiamo come tali, essendo sedimentati come del tutto normali nel nostro modo di esprimerci. Vero è che per molti, un bambino che gioca con le bambole o alla cucina è ancora una “femminuccia” (con buona pace dei vincitori uomini di Masterchef), almeno quanto è “maschiaccio” una bambina bravissima in matematica o che non adori il rosa e il glitter ma è vero anche che non sempre le due parole sono pronunciate con una volontà denigratoria consapevole, a riprova di quanto la lingua arrivi molto dopo il cambiamento del concetto e del senso.
Per quanto riguarda l’italiano poi, abbiamo delle forme che facilitano il perpetrarsi degli stereotipi: una su tutte? Il maschile sovraesteso, cioè un maschile dal doppio ruolo: il proprio e il plurale: il bambino (solo un bambino maschio) e i bambini (maschi e femmine che siano all’interno del gruppo).
Vi appare un elemento insignificante? Diversi studi dimostrano come un’esposizione continuativa ed esclusiva al maschile generico incida pesantemente sul senso di appartenenza e sull’ingaggio emotivo delle donne, che si tratti del loro ruolo familiare o aziendale.
Un ruolo, quello delle donne che non è certo marginale non solo in senso generico nel mondo del lavoro, ma anche propriamente quando si tratta di decisioni d’acquisto (con netta prevalenza delle donne, all’80%) E se lo stereotipo dell’uomo che guadagna soldi e donna che li spende -pure in modo compulsivo e irrazionale tipico di molti spot televisivi, poteva avere qualche appiglio decenni fa, oggi ci troviamo in una società in cui ad esempio in America si è passati dal 1981 in cui solo il 16% delle famiglie avevano come principale fonte di reddito una donna, al 29% nel 2018.
Sono madri single, imprenditrici (da noi ancora una donna giovane, bella e intraprendente sul piano imprenditoriale come una Chiara Ferragni anziché raccogliere consensi, viene subissata di critiche), ma anche donne “normali” che lottano per conciliare l’essere madri e lavoratrici, a dispetto di un panorama che sempre più ostacola questa doppia scelta. Donne che certamente non aspettano che il principe azzurro le salvi, ma che non per questo rinunciano anche al proprio lato femminile.
Da mamma e professionista mi impegno ogni giorno nel combattere due stereotipi: “una mamma che lavora? Non è credibile e davvero di successo in nessuno dei due ruoli”.
Ti trovi in una giornata caotica in cui entri ed esci da una call all’altra? Stai trascurando i compiti dei figli e sicuramente non gli preparerai un pasto ben bilanciato e con cibi bio (non menziono in questa sede nemmeno l’ipotesi quasi blasfema del tempo per sé stesse, men che mai per dedicarsi a frivolezze come il proprio aspetto estetico, che però dovrebbe magicamente mantenersi splendido per “tenersi stretto” il partner, pena l’ennesimo stereotipo della mamma che “si lascia andare”).
All’opposto? Giochi e prepari la cena insieme alla mini tribù e quindi alle 19.30 non sei attaccata alle email urgentissime del sabato sera? Non hai sufficiente “commitment” per poter aspirare ad un ruolo che non sia di basso profilo.
Insomma, alle donne è richiesta la perfezione, alle mamme che lavorano una doppia perfezione che spesso è una trappola mortale sia sul piano psicologico che organizzativo.

Fin da piccole, ci viene inculcato di dover essere belle, brave nei mestieri tipicamente femminili (e quindi no, per quanto il termine “banca” sia femminile, non mi riferisco ai sopra menzionati impieghi nei servizi finanziari), posate e passive.
La soluzione non è impedire alle bambine di sentirsi principesse o non far sentire in colpa i maschi che si commuovono guardando un film strappalacrime, la soluzione è creare alternative esaltando la particolarità di ognuno di noi come persona.
Tutti possono contribuire a costruire un futuro meno a senso unico e una delle modalità di farlo è proprio vigilare sul nostro linguaggio quando esprime concetti stereotipati, in cui probabilmente se ci soffermiamo a ragionare prima di esprimere, neppure riflettono un nostro pensiero reale.
Quando vi escono frasi come “ha gli ormoni”, fermatevi un momento prima a pensare alla battaglia quotidiana della vostra collega. Al suo dover fare doppia fatica per essere credibile e sentirsi valorizzata.
Non è certo un caso che il 91% delle donne riferisca di non sentirsi in alcun modo rappresentata nel modo corretto dalla comunicazione.
Anni e anni di carrellate di epic fail di campagne grottesche come il “Fertility Day” o al contrario di iper-sessualizzazione e doppi sensi fuori contesto per promuovere prodotti insospettabili, sono un fardello che, come donna, madre e professionista non vedo l’ora di scuotere dalle spalle, mie e dei miei figli.
Per approfondire il tema, qualche consiglio di lettura di Alexa
Bastava chiedere! 10 storie di femminismo quotidiano di Emma, Edizioni Laterza (pensato per i più grandi)
Quante tante donne,Anna Sarfatti (adatto dai 4 anni in poi)
La parità a piccoli passi,Carina Louart (pensato per i ragazzi e le ragazze delle scuole medie e per i loro professori e genitori).
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