Ricordo bene una delle prime volte che sono entrata nell’ufficio della società di consulenza per cui lavoro. Venivo da un evento dal taglio più lifestyle e avevo un cappello a turbante in testa. La ragazza all’accettazione mi ha squadrata con fare sospettoso: “ma…lei lavora qui?”
In Italia nel 2020 c’è un dato riguardo alle donne nel mondo del lavoro ancora più sfidante dei numeri bassissimi (Marina Magni, area manager Widiba, in un interessante articolo sul mondo della consulenza finanziaria che ho letto in questi giorni, sottolinea con una punta di amarezza, come il 20% circa delle professioniste femminili in organico sia praticamente invariato oggi rispetto a quando ha iniziato lei 40 anni fa!).
È un dato “sommerso”, che fatica molto a trovare non solo una soluzione ma persino una voce: il dato culturale.
La leadership in Italia resta fortemente ancorata a stereotipi in giacca e cravatta, in cui un manager dimostra la sua dedizione all’azienda per numero di ore trascorse in ufficio e relegando la vita personale all’ultimo posto. Quando il “sacrificio di Ifigenia” è consumato, si passa alla narrativa del “self made man” (o woman, poco conta, perché questo modello viene declinato spesso anche nei rari casi di donne nel top management). L’alternativa? La cosiddetta leadership generativa, tema a me molto caro fin da quando lavoravo a Piano C, uno dei molti progetti di Riccarda Zezza.
Se vogliamo che certi numeri cambino, diventa allora fondamentale lavorare sul pregresso e sul percepito, così come sui criteri di valutazione delle performance e l’apporto di una persona all’interno dell’organizzazione.
Il primo step credo passi proprio da noi donne professioniste: dobbiamo uscire dal cortocircuito dato dall’inseguimento di questo modello di leadership totalmente inadatta ad un ambiente che richiede, sempre più, doti diametralmente opposte: visione a lungo termine, rapidità e intuito per “vedere” i cambiamenti in arrivo, cura e valorizzazione delle persone del proprio team.
E su queste doti, una donna non solo non ha niente da invidiare agli uomini, ma è anzi percepita come maggiormente affidabile, come sottolinea ancora nell’intervista Marina. Su questo presupposto nasce il progetto WoW – Women of Widiba (qui trovate un video di presentazione che ne spiega i principi guida).
Un ulteriore aspetto fondamentale riguarda il secondo mito, quello del “self-made”: non c’è nulla di male nel celebrare i successi, ma è profondamente sbagliato non attribuire il giusto peso alla “rete” che ci sostiene come professioniste: che siano i nonni a disposizione, un marito che ci sprona, un’amica che si offre come babysitter last minute. Un bellissimo passaggio dell’intervista a Marina, che ho sentito fortemente mio.
Non saremmo quello che siamo senza il supporto di chi ha creduto in noi, perché il valore è fondamentale, ma lo è anche incontrare chi sa coglierlo e farlo fiorire, altrimenti restiamo fuoco sepolto sotto la cenere di una società che non di rado appiattisce il talento, non solo femminile.
Lasciarsi andare alla gratitudine significa anche motivarsi a dare sempre di più e puntare all’eccellenza, a non ritenersi il centro dell’universo e quindi essere aperte all’ascolto, all’essere guida a nostra volta per valorizzare gli altri, come è stato fatto con noi.
I cambiamenti che attendono tutti noi come italiani e noi donne lavoratrici sono enormi ma, anche su questo fronte, le donne hanno una marcia in più in termini di resilienza, di capacità di reinventarsi e di dare con generosità.
La prova? Nonostante il turbante, dopo 4 anni sono ancora una consulente, ormai un pochino meno naive forse, ma determinata e appagata. Perché non serve a niente spogliarci volontariamente di ciò che ci caratterizza come donne, ma anzi dobbiamo farlo emergere e renderlo il perno del nostro stile manageriale.
Perché lo stile, in ultima analisi è la più profonda forma di distinzione, ciò che fa affezionare a noi un cliente e che resta impresso nella memoria di chi incrocia il nostro cammino.
No Comment